La cura: vicinanza e sicurezza
Qual è il ruolo di un consulente pedagogico oggi? E come si declina nei servizi alla persona?
Questo mese vogliamo raccontarvi la nostra esperienza, in particolare quando siamo chiamati in alcuni servizi per disabili ad essere di supporto alle équipe e alle figure di coordinamento per migliorare e sviluppare la progettazione e la pratica educativa.
Un contesto nel quale ciò che fa la differenza è l’attenzione alla connessione tra le persone, le loro famiglie, e chi se ne prende cura, tra chi opera nei servizi con ruoli diversi. Ma anche tra menti, e corpi, tanti diversi tra loro, spesso difficili da decifrare e comprendere da parte di tutte le persone in gioco, tra chi dà cura e chi la riceve: pensiamo alle menti e ai corpi delle persone inserite nei servizi, a volte bloccati nei movimenti ma, soprattutto, incapaci di esprimere a parole cosa sentono, desiderano, pensano; e come anche per queste persone sia forse difficile interagire con chi li circonda e se ne prende cura, e usa modi di esprimersi così differenti e distanti dai loro. E, in parallelo, connessione anche con ciò che esiste fuori dalla famiglia e dal servizio, che non sempre è facile connettere al “dentro”: dai luoghi del tempo libero e del divertimento, spesso del tutto trascurati come possibilità o non accessibili, a quelli della vita quotidiana, come negozi, lavoro, o semplici luoghi e momenti di incontro tra persone, con il rischio che la vita nei servizi diventi un mondo chiuso, e ciò che esiste fuori venga percepito come inaccessibile a tutti coloro che ci vivono o lavorano, ed anche a chi vive e sta fuori da lì.
La “cassetta degli attrezzi”
Intanto, cosa c’è nella nostra “cassetta degli attrezzi “? Prima degli strumenti, sono importanti i riferimenti ad alcuni modelli e principi. Ci riferiamo, ad esempio, alla qualità della vita e alla cosiddetta “ bellezza terapeutica”: il primo riferimento orienta il lavoro con le persone perché sviluppino il loro potenziale, in un’ottica di autodeterminazione, autonomia e scelta, inclusione, benessere a vari livelli, e riconoscimento dei propri diritti, in qualsiasi condizione si trovino, anche di cosiddetta “gravità”; il secondo, a partire da come si strutturano e allestiscono gli spazi, guarda all’importanza e all’effetto di un’estetica che trasmetta cura, attenzione, possibilità di relazioni e connessioni tra chi li vive e li abita.
Nel definire i nostri strumenti di intervento, sicuramente ci aiutano la neurobiologia e alcune teorie che pongono l’attenzione sulla necessità di sviluppare vicinanza collaborazione e aiuto, a partire da una situazione di sufficiente sicurezza e attaccamento: riferimenti fondamentali per chi sta a contatto con persone che, per la loro patologia, hanno un funzionamento ridotto delle funzioni cerebrali più recenti nella storia evolutiva, e che dobbiamo e possiamo perciò raggiungere per altre strade.
dalla sicurezza…
La prima attenzione per noi è dunque lavorare sull’attaccamento, perché si creino e mantengano quelle condizioni di “sufficiente sicurezza” che favoriscono la connessione con e tra le persone. In questo ci aiuta il modellamento: con le équipe cerchiamo di porci in una modalità di relazione che sia simile a quella che vogliamo promuovere nei confronti delle persone che frequentano i servizi, quindi utilizzando l’ascolto, privilegiando la proposta e, a partire dalle figure di coordinamento, stimolando la consapevolezza e l’attivazione. Ma non solo: è infatti importante mantenere con i gruppi una relazione stabile e continuativa, che dia sicurezza, stabilendo ad esempio dei tempi e luoghi definiti in cui incontrarsi e rivedersi, con attenzione allo spazio in cui si interagisce, a come è strutturato e organizzato, alle modalità di comunicazione e relazione.
…. all’ingaggio
Abbiamo verificato anche che, se vogliamo promuovere connessioni, sono importanti alcuni accorgimenti nello stare con chi queste connessioni deve svilupparle ogni giorno, a contatto con le persone di cui si prende cura e dei colleghi. Come ci suggerisce la teoria polivagale di Porges, l’attenzione è alla “prosodia” , alla “sonorità” del modo con cui ci rivolgiamo alle persone e aiuta ad ingaggiarle nella relazione insieme allo sguardo, al contatto oculare, alla calma sostenuta dal respiro, al sorriso, attivando strutture del sistema nervoso che stimolano e mantengono connessioni e alimentano il senso di sicurezza Stare in questa modo con le équipe aiuta così gli operatori a riprodurre queste modalità con chi ha difficoltà a esprimersi verbalmente e strutture intellettive a volte pesantemente compromesse, ma che, per esperienza diretta, sappiamo che sono più facilmente raggiungibili proprio a questi livelli.
Un esempio
Concludiamo con un esempio tratto dalla nostra esperienza, in un centro in cui l’équipe ha forte difficoltà a gestire il comportamento di Carlo, inserito nel centro ormai da qualche anno.
Carlo è un giovane poco più che ventenne, e ha spesso momenti in cui aggredisce gli altri ospiti ma soprattutto gli operatori, quando non riesce ad ottenere un rapporto esclusivo . Ne parliamo in équipe, dove emergono tante visioni diverse di Carlo, accomunate dalla rabbia per le sue aggressioni fisiche e dal senso di impotenza, che fanno ipotizzare che “noi non possiamo continuare a tenerlo qui”. Piano piano emerge che Carlo sceglie inizialmente una persona con cui vuole stare tra gli operatori per poi cambiare repentinamente interesse e rivolgersi verso un altro durante la giornata, adirandosi molto se una di queste persone non è disponibile, perché magari impegnata con altri, come “saltando” continuamente” da una scelta a un’altra, e che non è mai servito richiamarlo alle regole di come ci si comporta e che non va bene aggredire. Anche il gruppo, mentre ne parliamo, “salta” da un argomento all’altro, incapace di “stare attaccato” a un punto e approfondirlo, proprio come Carlo. Parliamo di attaccamento, mentre stiamo col gruppo senza confrontarlo e, dopo un po’, facendolo rendere consapevole di questo movimento. Solo allora è possibile parlare di opzioni e possibili strategie che l’équipe potrebbe applicare, e di quelle che invece sono controproducenti, partendo dalla consapevolezza che Carlo non ha un modello interiore di “attaccamento” che lo aiuti a stare in una relazione in maniera adeguata, e che aiutarlo a costruirlo è la direzione in cui andare . All’incontro successivo l’équipe racconta di aver individuato alcune le strategie che sembrano funzionare: si è deciso di dare a Carlo per un periodo una persona fissa di riferimento, che però non sta sempre con lui, e Carlo ha già manifestato maggiore flessibilità, così come la stessa équipe, che ha trovato modi diversi di presentargli modi alternativi con cui rispondere ai bisogni che egli esprime con richieste a volte non appropriate o applicabili.
Stando col gruppo, connessi sia agli operatori che a Carlo e ai suoi bisogni ci ha così aiutato, come consulenti, a far si che si attivassero risorse, visioni e opzioni diverse nel modo di stare con lui, aprendolo all’apprendimento di nuove possibilità di comportamento.